Conoscete la sapa romagnola?

Nel precedente articolo di questo blog abbiamo parlato del formaggio di fossa che proprio in questo periodo viene tirato fuori dalle fosse e messo in tavola. Un modo molto gustoso di assaggiare questo formaggio dai forti sentori è accompagnarlo con la sapa (o saba) romagnola. Ma cos’è la sapa? Di cosa stiamo parlando? Innanzitutto partiamo dal nome: in Romagna, soprattutto nel riminese e nel cesenate la chiamiamo sapa. Man mano che si sale verso l’Emilia o si scende nelle Marche il nome cambia in saba ma sempre della stessa bontà si tratta.

Come si fa la sapa?

Si tratta di un mosto d’uva che può essere sia di uve bianche, sia di uve nere ma non deve avere ancora

Mosto di uve rosse (foto da commons.wikimedia.org). In copertina, bottiglia di Sapa fatta in casa (foto commons.wikimedia.org).

iniziato la fermentazione. Questo mosto va sistemato in un caldaio, o paiolo, in rame, assieme a sei noci intere (cioè non sgusciate) le quali, bollendo lentamente per circa otto ore con il composto, lo aiuteranno a non attaccarsi al fondo del paiolo. Un tempo questa pratica si svolgeva di notte. I contadini romagnoli rivestivano quest’abitudine di significati arcani, reconditi e un po’ magici. In realtà, nelle notti di fine estate, quando normalmente veniva preparata, al buio si evitava l’assalto di api e vespe inesorabilmente attratte dall’odore dolciastro della cottura. La schiuma che si formerà in superficie andrà tirata via utilizzando un cucchiaio di legno. Quando la sapa sarà ridotta di circa due terzi rispetto alla quantità iniziale e si sarà raffreddata, sarà pronta per essere messa a maturazione per circa sei mesi. Tradizionalmente, si utilizzavano a questo scopo dei contenitori in legno con l’apertura coperta da un pezzo di stoffa. Oggi, chi ancora esegue questo “rito culinario”, utilizza dei più moderni barattoli o bottiglie di vetro a chiusura ermetica. Dopo un semestre di maturazione, oltre ad avere il perfetto accompagnamento per il formaggio di fossa e altri caci dal forte sapore, avremo un gustoso condimento per i bolliti, o per le verdure lesse o grigliate. La sapa può essere anche un ingrediente per dolci, per mostarde e confetture; essere inserita nell’impasto dei tortelli dolci e condire ceci, castagne e fagioli.

La sapa nella storia

Un tempo era dunque patrimonio contadino delle terre romagnole ma oggi la sua produzione è in mano a poche aziende artigianali che continuano a credere in questo “succo d’uva”. Eppure si tratta di un preparato la cui storia si perde nel tempo. La parola “sapa” viene dalla parola latina sàpor, che significa sapore, gusto o aroma. Il primo a parlarne fu addirittura Virgilio, il sommo poeta latino che nelle Georgicae descrive la tecnica enologica

Virgilio (foto flickr.com).

in uso nelle campagne bolognesi. Poi ne scrive Lucio Giunio Columella in uno dei dodici capitoli del suo De Re Rustica. Columella sostiene che la sapa era data anche alle lumache per rendere la loro carne più dolce. Altri riferimenti storici li troviamo negli scritti di Plinio il Giovane, avvocato, scrittore e magistrato romano, nipote del più famoso Plinio il Vecchio che era il fratello della madre. Del primo, sono giunte fino a noi due opere: il Panegirico di Traiano e un Epistolario in dieci libri. In una delle lettere raccolte nell’Epistolario, racconta di come diversi anni prima fosse stato servito all’imperatore Augusto, il quale stava visitando la Gallia Cisalpina dalle parti del Rubicone, una sorta di sugo di vino che “condiva” dei dolcetti e che gli risultò graditissimo. Il fatto che Augusto (nato nel 27 avanti Cristo e morto nel 14 dopo Cristo), potesse gustare la sapa, significa che quel cibo, preparato in quel modo, doveva essere conosciuto perlomeno da diversi decenni in quella che è oggi la Romagna.

Ariosto e la sapa

Della sapa parla per diretta conoscenza anche Ludovico Ariosto (1474/1533). Scrive il grande poeta reggiano in un passo della terza delle sue Satire, indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi:

Chi brama onor di sprone o di capello,

serva re, duca, cardinale o papa;

io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa

ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco

e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

In pratica, Ariosto dice che, se dipendesse da lui, farebbe a meno di viver alla corte (di Alfonso d’Este) e si accontenterebbe di mangiare rape cotte su uno spiedo e condite con aceto e sapa. La vita da cortigiano non doveva andargli molto a genio, evidentemente. Ma quel che a noi più importa, è che abbiamo un indizio di come la sapa era utilizzata come condimento in quel periodo storico. Per ultimo citiamo un altro emiliano romagnolo: Pellegrino Artusi da Forlimpopoli. Nella sua opera “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar Bene” del 1895, scrive: “La sapa, ch’altro non è se non un sciroppo d’uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. È poi sempre gradita ai bambini che nell’inverno, con essa e colla neve di fresco caduta, possono improvvisar dei sorbetti”.

La sapa ha dunque una storia lunghissima che ha attraversato i secoli ma oggi è un condimento che rischia di scomparire dalle nostre tavole. Sarebbe un peccato perché vorrebbe dire perdere una parte delle radici della Romagna.